Scalata all'Etna
Con le sue salite ripide, le discese sterrate e la minaccia costante di un'eruzione vulcanica, l'avventura siciliana è stata una pedalata eroica
Hai sentito le notizie?” fa Chris tutto eccitato all’altro capo del telefono. È lunedì mattina e sono ancora un po’ rimbambito. “No, perché?” rispondo. “L’Etna ha eruttato” esclama. Mi precipito sul web ed eccole, le immagini dell’Etna che erutta cenere e lapilli nella notte siciliana. “Non ci posso credere”, rispondo, un po’ scioccato. “Pensa l’articolo che avremmo potuto scrivere…”.
Provo sentimenti contrastanti: da un lato ci siamo persi uno spettacolo naturale straordinario, dall’altro forse ci è andata bene. No, non mi immagino scene catastrofiche con noi che scendiamo inseguiti da fiumi di lava (mi dicono che succede solo nei film): mi riferisco più prosaicamente al caos dei voli che ci avrebbe lasciati spiaggiati in Sicilia per settimane.
Non è uno tsunami
Prima d’ora non mi era mai capitato di scalare un vulcano, e il pensiero fisso è inevitabile: la terra potrebbe svegliarsi e mettersi a tremare da un momento all’altro. L’Etna, altezza 3.350 m, domina l’orizzonte siciliano e resterà visibile praticamente per tutto il nostro giro di oggi. Le cronache ci dicono che l’ultima eruzione “importante” dell’Etna è avvenuta nel 1992, ma da allora si sono susseguite tante eruzioni più piccole.
Non sono ciottoli, ma le lastre vulcaniche giganti hanno più o meno lo stesso effetto su arti, "gioielli di famiglia" e bulbi oculari.
Mentre sorseggiamo un doppio espresso prima di partire, Gino, un siciliano alto e ben piazzato che oggi ci farà da guida, fa un commento che mi resterà impresso. “Non è come uno tsunami”, dice sentendoci parlare di una possibile eruzione. Intende dire che la lava non pone un pericolo immediato.
Diversamente da Hollywood, dove la lava scorre incontrollabile lungo i versanti travolgendo tutto ciò che trova lungo il suo cammino, la realtà ricorda il movimento di una gigantesca lumaca. “Camminando si può andare più veloci della lava”, soggiunge.
Chris e io siamo comunque emozionati al pensiero di scalare i pendii del vulcano, e decidiamo di risparmiare le energie sulla prima pendenza della giornata, una salita di 17 chilometri sulla Strada Provinciale 92 nota come Etna Sud. E pregustiamo già i panorami e le sfide (equamente distribuiti, com’è probabile) che ci aspettano durante questo giro di 142 km.
Per arrivare in cima ci sono solo due strade: questa che facciamo ora, a sud, e l’altra sul versante nord. Il programma di oggi è affrontare entrambe le salite, adeguatamente distanziate, rispettivamente all’inizio e alla fine del giro.
Questa rampa meridionale è spietata, con una pendenza media intorno al 7,5%, e sentiamo bruciare i muscoli delle gambe già prima di arrivare a metà strada dal punto, sui 2.000 metri, in cui la salita si impenna ulteriormente. Tra una chiacchiera e l’altra sul comportamento dei flussi di lava, Chris mi guarda storto perché ho scelto le specifiche piuttosto sontuose della Cannondale Synapse per questo giro. Ho un netto vantaggio in termini di peso sulla sua pur bellissima Genesis Volare d’acciaio inossidabile.
Il versante meridionale
Oggi la salita lungo il versante meridionale dell’Etna è particolarmente tranquilla, con qualche sporadico autobus turistico a interrompere la quiete. Le temperature sono in aumento, e abbiamo entrambi riposto manicotti e gilet nelle tasche posteriori.
Il problema degli autobus, oltre alla nuvola di gas di scarico in cui ci avvolgono, è che possiamo vederli allontanarsi sulla salita che ci attende. In lontananza scorgo i barbagli del sole che si specchia sui finestrini: sembrano minuscole torce che trasmettono in codice Morse il messaggio “Ne hai di strada da fare”.
A tenerci compagnia nella salita, stranamente, ci sono solo le coccinelle. Ho perso il conto delle volte che ne ho scacciata una dal braccio o dal manubrio, e noto che non sono l’unico a essere diventato stranamente irresistibile per questi insetti: Chris sta facendo lo stesso. Più saliamo, più ce ne sono. E così rinuncio a liberarmene e mi diverto a vedere quante riesco a portarne con me.
Dopo aver completato l’ultimo lungo tratto a zig-zag raggiungiamo la cresta dell’Etna Sud. Adesso che il versante non ci offre più riparo si fa subito sentire una brezza gelida, così accostiamo per indossare nuovamente i gilet. È anche l’occasione per ammirare per la prima volta il cratere. A un tratto però notiamo qualcosa di strano che ci distrae dallo spettacolo tanto atteso.
La strada è ricoperta di coccinelle morte: schiacciate, massacrate, maciullate. È una vera e propria ecatombe. Malgrado il paesaggio sia spoglio di fauna e flora, i piccoli coleotteri arrivano qui in massa (una curiosità: in inglese il termine con cui si designa un gran numero di coccinelle è “loveliness”, cioè “leggiadria”) e il numero degli esemplari morti sembra eguagliare quello degli insetti vivi.
Gino ci dice che le coccinelle sono in piena migrazione, e costituiscono una componente essenziale del ciclo del raccolto alle quote inferiori, nutrendosi degli insetti dannosi per le colture. Ci assicura che la scena cui stiamo assistendo è del tutto normale, e che la popolazione delle coccinelle non è in pericolo.
In cima troviamo molta gente. Gli autobus che ci hanno superato durante la salita hanno depositato il loro carico di turisti armati di macchine fotografiche: la maggior parte di essi è troppo impegnata a studiare l’angolazione perfetta per accorgersi di occupare il centro della carreggiata costringendoci a fare slalom. È tempo di ripartire.
La bellezza della discesa
Ci avviamo verso l’inizio della discesa, che vediamo snodarsi tra le brulle e spesso nerissime formazioni laviche che compongono gran parte del paesaggio a questa quota. Non avendo fatto altro che salire da quando abbiamo lasciato l’albergo, questo primo assaggio di discesa ad alta velocità e il brivido delle curve ci danno una gradita scarica di adrenalina. La superficie stradale è in ottime condizioni, forse perché da queste parti si rende necessario riasfaltare regolarmente.
Su un tornante passiamo accanto a una casa quasi completamente sepolta sotto la lava solidificata. È visibile solo il tetto, che contrasta con il paesaggio nero. Le assicurazioni sulla casa qui non devono essere regalate.
La discesa termina fin troppo presto, e svoltiamo a destra per imboccare una strada secondaria. Iniziamo nuovamente a salire. Stavolta la strada è stretta, e la pendenza estremamente varia: in gran parte gestibile, presenta di tanto in tanto ripide rampe che ci costringono ad andare fuori sella.
Scendiamo nuovamente, attraversando gallerie naturali formate dalle chiome dei castagni. Superiamo persone armate di rastrello e intente a raccogliere le castagne. Immagino sia un’altra industria locale, ma Gino ci dirà poi che le raccolgono per sé, non per venderle: le caldarroste sono una delizia locale. La strada è ricoperta di ricci di castagna, costringendoci a moderare la velocità e a stare in guardia per evitare di bucare.
Attraversiamo la periferia di Adrano, il primo grosso centro abitato che incontriamo lungo il percorso. Sono così concentrato a seguire le indicazioni del mio Garmin che praticamente non presto attenzione alla cittadina. Questo significa anche che perdiamo l’occasione di concederci la prima pausa caffè del giro. Con Chris decidiamo che è meglio continuare con questo ritmo, con la promessa di un caffè e qualcosa da mettere sotto i denti a Bronte, la prossima città, che a detta di Gino dispone di una ricca offerta di trattorie tipiche.
Dopo un breve tratto sull’arteria principale (Strada Statale 284) che collega Adrano e Bronte sul versante occidentale dell’Etna, poco prima del paesino di Sacro Cuore, svoltiamo e con la montagna di fronte iniziamo ancora una volta a scalare. La strada è ripida ma noi non desistiamo, incoraggiati dalla prospettiva del cibo e della caffeina che ci aspettano.
Il cancello di legno
Dopo aver faticato su quella che ci sembra una salita interminabile ci ritroviamo a fissare attoniti un massiccio cancello di legno che impedisce l’accesso ai veicoli nel Parco nazionale dell’Etna. Guardo Chris. La sua espressione è eloquente. Dopo tutta l’energia spesa per arrivare fin qui siamo riluttanti a tornare indietro. Ci siamo guadagnati il diritto di proseguire e sappiamo che il percorso alternativo è una banalissima strada principale.
E poi ho fatto le mie ricerche, e sono certo che qualche chilometro oltre questo cancello ci sia qualcosa di veramente speciale. Anzi, è una delle sezioni del giro che pregustavo: un pavé pazzesco che avevo adocchiato su Google Street View.
I ciottoli non sono i kinderkoppen tondi delle Fiandre ma più ampie lastre di nera roccia vulcanica stese in due strisce parallele come le impronte fiammeggianti lasciate dagli pneumatici della DeLorean di Ritorno al futuro.
Potrebbe essere il pezzo forte del nostro giro, e mi dispiace rinunciarci. Poi accanto al cancello di legno notiamo qualcosa di interessante. È un’entrata riservata ai pedoni, ed è aperta. Per noi è una tentazione troppo forte.
Mi allontano un attimo per vedere com’è la strada più avanti, considerando che forse almeno Chris e io possiamo proseguire abbandonando temporaneamente Gino e Juan, il fotografo. Loro non farebbero altro che tornare indietro per aspettarci all’uscita del parco.
Cosa può andar storto con un piano come questo? Torno dagli altri, dico loro che la strada sembra buona. Decidiamo di provarci. Se è aperta ai pedoni, andrà bene anche per le biciclette, no?
Sul lato selvaggio
Pochi minuti dopo l’inizio della nostra avventura, Chris decide di vuotare il sacco: su internet ha letto che la zona è piena di cinghiali. Non gli sono esattamente grato di avermi regalato la sua perla di saggezza. Siamo a metà strada verso la cima di un vulcano, ben lontani dalla civiltà e armati solo di un alzatallone. Di plastica. Mi sento un po’ vulnerabile. Nelle mie condizioni non riuscirei a spuntarla neanche con uno scoiattolo, figuriamoci un cinghiale. Per precauzione mando giù un gel energetico, non si sa mai.
Il percorso di Cyclist inizia in salita e continua a puntare verso l'alto, con l'Etna che incombe.
Mentre sono impegnato nelle mie fosche considerazioni, un grosso cane da guardia si lancia verso la staccionata di una tenuta confinante, facendomi venire un mezzo infarto. Da come si è messo a ringhiare e ad abbaiare nella nostra direzione, dev’essere la prima volta in svariati giorni che fa il suo lavoro: siamo in un posto dimenticato da Dio, e la bestiola ce la mette proprio tutta per impressionarci.
Non siamo dell’umore giusto per scoprire se riuscirà a superare il cancello (e se ha pranzato) e così ci allontaniamo rapidi. Ma lo sprint ha vita breve, perché dietro la curva l’asfalto si trasforma in ghiaia. Per paura di essere inseguiti continuiamo a darci dentro, un po’ più trafelati ma mantenendo l’andatura.
I percorsi qui sono passabili per le bici da strada, a patto di fare attenzione. Più saliamo e più assumono una consistenza morbida e simile alla cenere, e iniziamo ad avere l’impressione di pedalare sulla sabbia.
Discutiamo brevemente sull’opportunità della nostra scelta, ma decidiamo di proseguire: un po’ perché l’uscita non deve essere lontana, un po’ perché l’idea di ripassare a salutare il cane non ci fa fare i salti di gioia. Abbiamo fatto bene. Avvistiamo il cancello e il punto d’incontro. Ma di Gino e Juan, purtroppo, neanche l’ombra. Evidentemente il navigatore obsoleto di Gino non ce l’ha fatta a trovare questa stradina.
La discesa verso Bronte si dimostra all’altezza delle mie aspettative, giustificando appieno la decisione di sfidare il cancello chiuso e l’avventura del Parco. L’acciottolato è pazzesco. Mi viene da tenere le palpebre socchiuse per impedire agli occhi di uscire dalle orbite, tanto mi fa sobbalzare questo pavé vulcanico percorso ad alta velocità.
Sembra la foresta di Arenberg della Parigi-Roubaix, ma più ripida e pericolosamente vicina a un gigantesco vulcano. È durissima, ma anche entusiasmante. La Synapse della Cannondale è stata concepita pensando proprio alle Classiche del pavé, e così ancora una volta mi compiaccio della mia scelta, anche se perfino i suoi ammortizzatori faticano a tener testa ai colpi. L’unico modo per impedire a mani e dita di perdere sensibilità per le costanti vibrazioni è rallentare, il che ci permette tra l’altro di guardarci attorno e ammirare il nero paesaggio alieno che ci circonda.
Finalmente arriviamo a Bronte per ricongiungerci con la vettura di supporto. Ho una sola cosa in mente: il cibo. Per fortuna troviamo un bar specializzato in dolci e gelati. I pistacchi di Bronte sono famosi in tutto il mondo, e Gino insiste per farci assaggiare sia i dolci che il gelato di quel gusto. Noi non opponiamo resistenza, pur sapendo che ci attende ancora una scalata di tutto rispetto. Innaffiamo il tutto con un secondo giro di caffè e siamo pronti per tornare in sella.
Sotto questo sole
Sazi di zuccheri e rinfrancati, affrontiamo un altro breve tratto di Strada Statale 284 in direzione Randazzo. Poco prima di raggiungere il paese svoltiamo a destra seguendo la curvatura dell’Etna e torniamo sulle strade secondarie. Il sole sta rapidamente calando: in lotta contro il tempo Chris e io ci avvicendiamo al comando sfruttando la reciproca scia per guadagnare terreno.
È una strada ondeggiante e piuttosto stancante che conduce ai piedi dell’Etna Nord. Sulla destra incombe possente il vulcano, e in lontananza a sinistra è visibile la catena montuosa che si estende sulla punta nordoccidentale della Sicilia, sempre più in ombra. Poco prima di Linguaglossa svoltiamo e iniziamo la scalata, mantenendo un’andatura lenta per non sottoporre a uno sforzo eccessivo le gambe ormai stanche.
I primi pendii dell’Etna Nord, boscosi, nascondono la vastità del versante nord-occidentale, ma salendo il panorama si spalanca alla vista. Ogni curva promette di rivelare la cima, ma porta solo a un altro segmento di salita. I bar e le case lungo la strada hanno le persiane immancabilmente chiuse: la salita è desolatamente deserta, quasi sinistra nell’aria serale che si va raffreddando mentre il sole scompare dietro la cima. Raggiungiamo la vetta per la seconda volta.
Niente turisti, stavolta. Possiamo ammirare in assoluta solitudine il magnifico panorama delle montagne distanti che si fanno rosate nel tramonto. Per non raffreddarci e soprattutto per approfittare della luce che ci resta, indossiamo un supplemento di vestiario e ci affrettiamo a scendere. Tra noi e una doccia calda c’è solo la discesa verso Milo sulla via Mareneve.
Potremmo aumentare di molto la velocità, ma dato che non abbiamo le luci Gino insiste sulla sicurezza e si porta davanti a noi con la macchina. Naturalmente ha ragione. È troppo tardi per rischiare un incidente, così ubbidiamo.
Attraversata Zafferana Etnea l’hotel è ormai vicino, ma ci resta ancora la salita iniziale dell’Etna Sud per dichiarare conclusa la giornata. È solo un chilometro e mezzo, ma è la parte più ripida della salita di 17 km. Una fatica.
Percorriamo rantolanti le ultime poche centinaia di metri. Quando li raggiungiamo nel bar dell’albergo, Gino e Juan sono già a metà delle loro birre. Almeno hanno ordinato anche per noi. Con la lunga giornata alle spalle, queste birre ci sembrano più rifrescanti che mai.
Adesso, dice Gino, non ci resta che provare un’altra specialità del luogo, una pizza Siciliana: è essenzialmente un calzone, ma fritto. È proprio la scorpacciata di calorie che ci serve: in fondo la ricompensa di un giro come questo è l’assenza di sensi di colpa anche di fronte a un piatto come questo. So già che, come la birra, ci sembrerà più buono che mai.