“Cerco di pedalare seduto sul tubo orizzontale come Froome. Ci riesco, ma non è facile. È senz’altro meglio sotto tutti gli aspetti. Quando lui l’ha fatto per la prima volta, l’anno scorso, ha detto che lo aveva deciso all’ultimo momento, ma io so che stava facendo pratica nella galleria del vento da molto tempo, alla ricerca delle posizioni più aerodinamiche. Eppure quando lo vedo correre in questa posizione mi fa paura”. L’entrata in scena di Fausto Pinarello, che pure si proclama così timoroso della velocità, è singolare. Al mio arrivo nella sede dell’azienda – un edificio che sembra un’astronave aliena di vetro e cromo nel mezzo di una zona industriale – sono passato dalla penombra di un atrio a un hangar di un bianco accecante. Là, nel ronzio degli strumenti pneumatici e i bip-bip dei carrelli elevatori, vedo sfrecciare una figura umana accompagnata dall’inconfondibile brusio di un Segway.
Fausto si ferma davanti a me. “Fa 21 km/h”, dice, rispondendo all’inevitabile domanda. “Questo è il secondo. Il primo l’ho rotto dopo tre anni di utilizzo. Con lui ho fatto 5.000 km in giro per la fabbrica, pensa se li avessi fatti a piedi. A volte lo uso perfino per venire al lavoro. Vivo qua vicino. Ma la realtà è che la mia vera casa è questo posto”.
Bisogna scorrere a lungo la lista degli archetipi di bici italiani prima di trovarne uno che non sia incarnato da Pinarello, da intendersi come uomo e come azienda. Ma c’è un piccolo colpo di scena. Sì, il fondatore Giovanni “Nani” Pinarello era un ciclista di moderato successo, ottavo di dodici fratelli di origini contadine che aveva imparato le basi della costruzione di telai in acciaio all’età di 15 anni. Ma poi la sua carriera si costruì per vie insolite, e la sua ditta fu fondata in circostanze ancora più bizzarre.
Giovane promettente, Nani riuscì a diventare professionista solo nel 1951, quando si classificò ultimo nel Giro d’Italia. All’epoca la maglia nera era come la lanterne rouge del Tour, un onore. E così Nani Pinarello divenne improvvisamente famoso, tanto più che l’anno successivo gli organizzatori del Giro sancirono la fine della maglia nera perché a loro dire ispirava ormai tattiche assurde: i ciclisti si lanciavano nei fienili, bucavano volontariamente e proseguivano anche dopo orribili infortuni pur di arrivare ultimi.
Inevitabilmente, però, la “fama” di Nani ebbe vita breve: l’anno dopo la Bottecchia, la sua squadra, gli chiese di ritirarsi in cambio di 100.000 lire. Un corridore di talento, Pasqualino Fornara, si era appena liberato dal contratto con la squadra rivale Bianchi, e la Bottecchia voleva che corresse il Giro del 1952 al posto di Nani.
Per quanto ciò fosse doloroso, il ventinovenne Pinarello accettò. Usò i soldi per aprire un negozio di biciclette a Treviso, dove ha ancora sede l’azienda, e nel 1953 nacque la Cicli Pinarello. “Negli anni Settanta e Ottanta mio padre vendeva ormai 30.000 bici all’anno”, ricorda Fausto. “Ma fu con la Columbus SLX che sfondammo. Costava un milione di lire, che nel 1985 corrispondeva a un buon mese di salario”.
Con una mossa astuta, la Pinarello sponsorizzò lo statunitense Alexi Grewal nei Giochi olimpici del 1984, e Grewal ricambiò con un’esaltante vittoria su una Montello, superando di poco il canadese Steve Bauer: da un giorno all’altro la Pinarello divenne uno dei principali marchi italiani del mondo del ciclismo.
Un colpo di fortuna, certo, ma la Pinarello ha sempre lavorato sodo per costruire la propria fama. Da ragazzo Nani Pinarello costruiva telai d’acciaio per il marchio locale Paglianti, ma erano soprattutto bici da città. Così, quando si era trattato di fabbricare bici da corsa si era rivolto a gente esperta. Riconosceva però anche il valore della pubblicità, e sapeva che i ciclisti professionisti erano il mezzo migliore per ottenerla.
Nel giro di sette anni la Pinarello sponsorizzava già la sua prima squadra professionista, la Mainetti, e nel 1961 conobbe un’importante vittoria nella prima edizione del Tour de l’Avenir (corsa a tappe su strada riservata agli under 23) con Guido De Rosso. Nel 1967 Marino Basso vinse due tappe del Tour. Poi, nel 1975, Fausto Bertoglio vinse il Giro, ma fu la doppietta Vuelta/Giro di Giovanni Battaglin nel 1981 a dare il via a più di 30 anni di sorprendenti successi.
“Vi mostro la bici”, dice Fausto, guidandoci tra imponenti rastrelliere di telai Dogma e centinaia di forcelle fino al mezzanino dello stabilimento. “La” bici risulta essere una vera e propria collezione. Fausto ci spiega è stata riesumata per un’altra iniziativa sponsorizzata dal brand, la Granfondo Pinarello, che ha da poco superato il traguardo dei vent’anni.
“Questa l’ha usata Battaglin sulle Tre Cime di Lavaredo (diciannovesima tappa) nel Giro del 1981, è stata la tappa decisiva. È una salita durissima, così mio padre e il meccanico decisero di costruire una guarnitura tripla, assemblata manualmente la notte prima”, racconta indicando una guarnitura pantografata Pinarello. Grazie alla guarnitura, alle gambe o a entrambe le cose, Battaglin riuscì a staccare l’avversario, Giuseppe Saronni, con una mossa che gli fece conquistare la maglia rosa e la gloria del doppio primato. “Lui ha fatto il doppio, ma noi quel giorno abbiamo fatto il triplo, con questa guarnitura”.
Trentasei anni dopo, il palmarès della Pinarello è spettacolare. Mancano ancora le vittorie alla Parigi-Roubaix e al Giro delle Fiandre maschile, ma sono più che compensate dai successi ai Mondiali (Diana Ziliute e Rui Costa, corsa su strada, 1998 e 2013; Wiggins e Vasil Kiryienka, crono, 2014 e 2015), dalla maglia verde più volte conquistata da Erik Zabel, da due record dell’ora (Miguel Indurain, 1994; Wiggins 2015) e da quattordici vittorie al Tour de France.
Va detto che alcune delle bici vincenti di Indurain erano state costruite da Dario Pegoretti e
di Pinarello avevano solo il marchio, ma Fausto commenta con una scrollata di spalle e un sorriso: “Allora erano una cosa che facevano tutti, le bici personalizzate”. Continua...