La strada segreta dello Zoncolan

Non è nemmeno mostrata sulla maggior parte delle mappe, ma se conosci le persone giuste c’è una terza via al Monte Zoncolan, non certo meno impegnativa delle altre.

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Lo Zoncolan nascosto.

Comeglians siede come un bottone su un divano Chesterfield, appuntato al fondovalle come se legasse le montagne che si ergono biliose ai suoi lati. Ci sono molti paesi come Comeglians nelle Alpi Carniche, poco più che semplici note a piè di pagina sulle strade provinciali. Eppure, in qualche modo contengono tutto ciò di cui si può avere bisogno: un ristorante, un supermercato, un ufficio postale, una banca, una ferramenta, un albergo. Durante il tragitto li spunto in quest’ordine. Quando passiamo la fontana - una ninfa rinascimentale che scarica in un trogolo di pietra - abbiamo raggiunto i limiti del paese e siamo sulla nostra prima salita.

Le località montane, come regola generale, in questi luoghi si aggrappano ai piedi delle frastagliate pareti calcaree, il che significa che la maggior parte delle strade per uscire sono in salita. In questo modo Marco è stato in grado di pianificare un giro di soli 65 km, ma con circa 2.800 metri di dislivello.

Ma anche così, ha avuto bisogno di un “piccolo” aiuto per raggiungere queste statistiche, inserendo un nome noto ai ciclisti di tutto il mondo: Zoncolan, il Monte Zoncolan.

Lo Zoncolan nascosto.

Tale padre, tale figlio

A vent’anni, Marco sembra nato in bicicletta, così come suo padre. Eppure, i due, che gestiscono la stazione ciclistica Pendenze Pericolose ad Arta Terme, in provincia di Udine, si sono avvicinati tardi al ciclismo: il più giovane era un “fumatore, bevitore, mi piaceva fare festa”; il più anziano una “guardia di sicurezza sovrappeso in Vaticano”.

Emiliano (Cantagallo, ndr), il padre di Marco, si è trasferito definitivamente in Friuli-Venezia Giulia, mentre Marco si divide tra Arta Terme e la nativa Roma. Entrambi rappresentano un eccellente dimostrazione di ciò che il ciclismo può fare, e poco importa quando lo si intraprende. In quattro anni Emiliano è passato da 90 kg e 40 sigarette al giorno ad aver fatto più di 100 salite sullo Zoncolan. Cento. Sono quattordici Everest.

In questo Emiliano è una specie di leggenda locale. Il paese gli ha persino organizzato una festa per la sua centesima cima, e anche se il conto di Marco è un po’ meno significativo, lui conosce la salita come le sue tasche.

La parola migliore per descrivere in che modo racconta lo Zoncolan è “amico”, una sorta di amabile canaglia, protagonista anche quest’anno al Giro d’Italia, come l’Angliru alla Vuelta, una salita selvaggia che regolarmente ruba la scena.

Eppure, oggi non attaccheremo lo Zoncolan in stile classico, da Ovaro a ovest. E nemmeno al “contrario”, come hanno fatto i professionisti nella tappa 14 del Giro di quest’anno, arrivando da Sutrio a est. No, Marco ha una terza via nella manica, e mi preoccupa che non appaia su alcuna mappa. Comunque, per ora lo Zoncolan è un avversario senza caratteristiche, troppo lontano nel futuro per vederlo.

Attraversiamo una galleria acciottolata, il cartello alla nostra sinistra segna una linea rossa che attraversa la parola “Comeglians”. Poche decine di metri dopo è evidente che stiamo pagando i primi acconti sul nostro debito d’altitudine. La prospettiva della strada si è spostata in alto di qualche metro e Marco si rallegra dicendo: “Vedi, ci siamo, il Monte Crostis”.

Lo Zoncolan nascosto.

Dove sei stato?

Non si finisce mai di stupirsi su queste salite. Proprio quando penso di averle viste e sentite tutte, ecco che arriva un’altra sorpresa e mi chiedo come diavolo ho fatto a non vederla fino a quel momento. Oggi quella salita è il Monte Crostis, lunga 15,5 km e che sfiora appena i 2.000 metri; pendenza media del 9%, più tratti vicini al 20%.

Le pendenze iniziali sono abbastanza ripide da farci tacere entrambi ed è questo silenzio cerimoniale che fa da colonna sonora al film che si svolge davanti a me. La strada ha un colore grigio, un po’ tetro, con la mancanza di marcature centrali che indicano quanto sia stretta. Da un lato ci sono conifere verdi brillanti che gocciolano nell’umidità del mattino, dall’altro decine di tronchi accatastati, con la corteccia che si stacca come scaglie di cioccolato. Nel 2018 le Alpi Carniche sono state devastate da forti tempeste, che hanno reso calvi interi versanti e ridotto gli alberi a fiammiferi, e dopo quasi due anni i taglialegna sono ancora al lavoro.

Due ciclisti ci sorpassano mentre ci imbattiamo in Tualis, l’ultimo paese sul Crostis. Annuiscono con la solennità di chi sa che loro stanno scendendo mentre tu stai salendo. Il loro vento impetuoso disturba la nostra aria tranquilla e per un momento una brezza gradita attraversa la strada. Ma è di breve durata. Lentamente sento la temperatura dell’aria scendere in un modo che indica che stiamo guadagnando seriamente quota. Eppure, non riesco a vedere alcun riferimento nel paesaggio che mi faccia capire quanto siamo saliti. Se non fosse per la strada, sarebbe come trovarsi in una fitta foresta, con gli alberi che oscurano tutto tranne qualche debole spiraglio verticale.

I tornanti iniziano sul serio, le prime coppie di curve ripide in una direzione seguite da una più morbida nell’altra. Ma come un boa constrictor si stringono lentamente in quel tipo di curve che si guardano dall’alto verso il basso, finché finalmente emergiamo in un “quasi” rettilineo che ci proietta verso la vista del nostro primo grande paesaggio. Vette color porpora dipingono l’orizzonte, mentre davanti a noi c’è quello che sembra cielo ma che in realtà Marco, con rammarico, mi dice essere nebbia. Ha avvolto la Panoramica delle Vette, il meritato premio per chi raggiunge la cima del Crostis, un passo sterrato così chiamato per le ampie vedute che offre. Marco dice quello che ogni ciclista che incontra la nebbia lontana dice sempre: “Non ti preoccupare, sparirà”.

Lo Zoncolan nascosto.

Occhi annebbiati

Le preoccupazioni per la visibilità scompaiono rapidamente mentre affrontiamo gli ultimi 2 chilometri. Marco mi aveva avvertito, il classico “pungiglione” che tutte le migliori salite hanno, come se gli ingegneri stradali si fossero stancati di costruire e avessero deciso che volevano finire il lavoro in fretta, così si sono messi a tracciare il percorso più breve per arrivare in cima. Il nostro precedente 8-10% si intensifica in lunghi tratti del 18%. Come quando ripeti una parola più e più volte finché non perde di significato, provo a concentrarmi strenuamente sulle mie gambe affinché cessino le sensazioni di bruciore. Non ci riesco assolutamente.

La previsione di Marco sulla nebbia si rivela ugualmente sbagliata; la vedo calare sulla nostra montagna da tutti i punti della bussola. Ma c’è un piano, una sosta al rifugio e l’assicurazione delle più sacre delle sostanze: il caffè e la torta. Sono pensieri sufficienti a dare forza alle mie gambe, e anche se ho trovato dolorosa tutta l’esperienza degli ultimi 20 minuti, arrivo soddisfatto, se non proprio felice, alla fine della salita.

Il Giro d’Italia qui non è mai arrivato. Il ciclista belga Wouter Weylandt fu vittima di un tragico incidente fatale in una discesa durante la terza tappa. La tragedia condizionò irrimediabilmente non solo lo spirito della corsa, ma anche la sua organizzazione, con i funzionari del Giro che decisero di riesaminare la sicurezza delle tappe. Il Crostis è una strada molto stretta, tanto che i commissari di gara hanno inizialmente decretato che solo le moto sarebbero state ammesse, non le auto della squadra. Ma con i riflettori puntati sulla sua discesa tecnica e sui tratti sterrati, il Crostis è stato cancellato per motivi “sportivi” non “di sicurezza”, con la motivazione che erano state le squadre ad obiettare che senza ammiraglie “non potevano adempiere ai loro doveri”.

In ogni caso, la salita rimane inutilizzata dal più grande spettacolo ciclistico italiano, ed è forse per questo che è relativamente sconosciuta.

Torta e caffè sono in arrivo, così come la mia giacca dalla tasca della maglia. La nebbia aumenta e il nostro trespolo sulla terrazza del Rifugio Chiadinas diventa gelido. Rimuginiamo su quanto tempo dovremmo aspettare. La nebbia si alzerà o peggiorerà, e quanto tempo prima che le nostre membra gelate si ammutinino? Raggiungiamo il whiteout totale. Aspettiamo. Mi siedo sulle mani dopo aver constatato che non c’è acqua calda nei rubinetti del bagno.

In un certo senso la nostra testardaggine paga. Il bianco si trasforma in un grigio vaporoso, e se non ci sono i panorami tentacolari promessi, almeno ora posso vedere a 10 metri dalla strada, cosa molto utile visto che i prossimi chilometri sono sterrati con un precipizio non protetto alla nostra destra.

Alla fine, arriviamo abbastanza in basso da eludere la nebbia e una valle audacemente rigogliosa si estende davanti a noi. Raggiunto il punto più alto sul Crostis e un altopiano a 1.982 metri, non è una sorpresa - ma un divertimento incredibile - che i 20 km successivi siano tutti in discesa, con appena un colpo di pedale speso per portarci a Sutrio.

Lo Zoncolan nascosto.

Dove andiamo?

La discesa è stata rigenerante, i nostri corpi sono stati riscaldati dal sole che si è finalmente palesato. Entriamo nel comune di Sutrio e vedo diversi cartelli che indicano lo Zoncolan. Li superiamo tutti con un cenno del dito di Marco. Poi lasciamo del tutto Sutrio e mi chiedo come faremo ad arrivare ad una salita dalla quale ci stiamo allontanando.

Marco urla e frena di colpo. Abbiamo superato la curva, e quando torniamo sui nostri passi capisco perché. Come Comeglians questa mattina, il paese che segna la nostra svolta è un ammasso di edifici con una strada in entrata e una in uscita.

Prendiamo la strada in entrata, subito dopo un cartello che dice “Priola”; ci muoviamo attraverso alcune strade larghe a malapena per un cavallo, e poi improvvisamente quello che sembra un vialetto privato scompare e sale nella fitta foresta. Questa è la vecchia strada dello Zoncolan che mi era stata promessa. E che tremenda promessa è.

Se fossimo partiti da Sutrio, come hanno fatto i professionisti a maggio, la pendenza dei primi chilometri sarebbe stata a una sola cifra, e anche quando la strada fosse passata al 10% almeno sarebbe rimasta lì fino agli ultimi brutali 3 km. E anche in quel caso la strada sarebbe stata nuova e ben asfaltata.

La nostra strada, invece, può probabilmente ricordare le imprese di Luigi Ganna, vincitore nel 1909, ed è più calpestata dagli zoccoli che asfaltata per i veicoli. Qui siamo dritti all’11%, con la strada che schizza come un cuore aritmico verso i dieci gradi. La mia ruota posteriore scivola quando sono in piedi, ma l’anteriore diventa inquietantemente leggera quando sono seduto. È come pedalare su un parcheggio multipiano abbandonato.Tuttavia, se il Monte Crostis rappresentava una sfida significativa, qui è tutto così assurdo nella sua pendenza e nelle condizioni della strada che ci vuole tutta la grinta e la concentrazione che posso raccogliere per non scendere e camminare.

In qualche modo Marco riesce a fare un po’ di chiacchiere, per le quali gli direi di non preoccuparsi se riuscissi a dire qualcosa di mio. Così com’è mi accontento di lasciarlo andare alla deriva tra i pini mentre io cerco di guardare attraverso le mie lenti appannate per evitare i rami caduti e scegliere le linee meno accidentate. Avrei dovuto togliere prima gli occhiali, le mie mani ora non possono staccarsi dal manubrio.

Come si dice, la sofferenza produce perseveranza; la perseveranza costruisce il carattere, e il carattere la speranza. Ed è vero. Più piani di questo parcheggio spunto, più spero che finisca.

Invece la strada diventa più simile a un sentiero, con i rami degli alberi e i cespugli che mi artigliano ai lati (più tardi, guardando su Google Maps, scoprirò che ufficialmente la strada è solo un vicolo cieco). E poi, come per magia, il sole mi illumina e io emergo su una strada asfaltata per vedere campi ordinati, uno chalet pittoresco e un Marco sorridente. “Ora la salita diventa dura”, dice.

Lo Zoncolan nascosto.

Vista dall’alto

Strano a dirsi, ma anche se la salita è ancora più ripida - i regolari dieci gradi dell’inizio salgono a tratti fino a quasi il 20% - trovo l’ultimo terzo abbastanza piacevole. Forse le mie gambe si sono adattate e, finalmente, posso ora intravedere quella panacea del ciclismo che si chiama vetta.

Le cime degli alberi mi indicano che non si può guadagnare ulteriore altezza, e quegli alberi si stanno effettivamente avvicinando. La salita sta anche diventando progressivamente più leggera, nel senso che ho sudato una razione giornaliera di acqua e ora ho svuotato le mie borracce.

Marco ora sta salendo come un ballerino di salsa, tutto fianchi e scivolamento, e quando arrivo in cima ha il suo telefono in mano, scattando foto della segnaletica dello Zoncolan da mandare a suo padre. Crollo sul manubrio, con il petto pesante, le membra che galleggiano da qualche parte in alto, finalmente al sicuro nella consapevolezza che, a questo punto, l’unica via percorribile è la discesa.

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